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Palazzo Vecchio, Salone dei Cinquecento

Nel 1478 era stata affidata a Leonardo la realizzazione di una pala raffigurante La visione di San Bernardo per la cappella di San Bernardo nel Palazzo della Signoria, in un primo momento commissionata a Piero del Pollaiolo. Leonardo non completò l’opera pur avendo eseguito un cartone; l’incarico venne quindi assegnato al Ghirlandaio, ma fu Filippino Lippi a ultimare il dipinto che si conserva oggi agli Uffizi. Secondo l’Anonimo Magliabechiano Filippino usò anche il cartone di Leonardo. A seguito di una serie di trasformazioni iconografiche era divenuto una Madonna in trono con quattro santi e due angeli che ricordano gli angeli di Verrocchio e Leonardo, come quelli ideati per il Cenotafio Forteguerri di Pistoia, ora esposti al Louvre. 
Nel 1503 venne commissionata a Leonardo, per la Sala del Gran Consiglio del Palazzo della Signoria, una grandiosa pittura murale raffigurante la Battaglia di Anghiari, che avrebbe dovuto commemorare la vittoria ottenuta il 29 giugno 1440 dai fiorentini, al comando di Giovanni Paolo Orsini, sui milanesi guidati da Niccolò Piccinino. Di fronte era poi prevista una Battaglia di Cascina per la quale fu incaricato Michelangelo.
I pagamenti ricordati nei documenti d’archivio testimoniano dei costi sostenuti per la costruzione di un ponteggio mobile e per i compensi di Leonardo e dei suoi collaboratori. Interessante è un’annotazione autografa di Leonardo nel Codice di Madrid II. Venerdì 6 giugno 1505 egli si trovava in Palazzo Vecchio e alle ore 13 cominciava a dipingere sul muro della Sala Grande: «Addì 6 giugno 1505 in venerdì, al tocco delle 13 ore, cominciai a colorire in palazzo. Nel qual punto del posare il pennello, si guastò il tempo e sonò a banco, richiedendo li omini a ragione. Il cartone si stracciò, l’acqua si versò, e ruppesi il vaso dell’acqua che si portava. E subito si guastò il tempo e piovve insino a sera acqua grandissima. E stette il tempo come notte».
Sorgono in proposito alcune domande: si tratta delle prime pennellate o, come è probabile, di una ripresa dei lavori? Il ricordo esprime anche un presagio negativo? Il ritmo dell’annotazione è incalzante, inquietante: «il cartone che si stracciò», «’acqua che si versò», «il vaso che si ruppe» hanno per Leonardo un significato profetico? Insieme al «tempo che si guastò e stette come notte», si tratta di un presentimento di quella leggendaria rovina della pittura che, secondo l’Anonimo Gaddiano e Vasari, avrebbe compromesso il nascente capolavoro di Leonardo?
L’ipotesi più verosimile è che non si sia trattato del fallimento dell’intera esperienza pittorica, quanto piuttosto di un parziale risultato negativo in una fase preliminare. Non è forse per recarsi a Milano su richieste di Charles d’Amboise e re Luigi XII che Leonardo interruppe i lavori – come scriveva il gonfaloniere Soderini – dopo aver «dato un piccolo principio a un’opera grande»? E non è forse documentato che il 26 febbraio 1513 (1514 secondo il calendario fiorentino) si faceva una struttura in legno per «d armare intorno le fighure dipinte nella Sala Grande della guardia di mano di Lionardo da Vinci, per difenderle, che le non sieno guaste»? Quindi il capolavoro incompiuto di Leonardo sembrerebbe essere  stato conservato e ben protetto, anzi addirittura visibile e ammirato.  È significativo quanto scriveva Anton Francesco Doni nel 1549, anni prima della ristrutturazione vasariana (1563): «E salito le scale della Sala Grande, diligentemente date una vista a un gruppo di cavalli, e d’uomini (un pezzo di Battaglia di Lionardo da Vinci) che vi parrà una cosa meravigliosa.» È difficile credere  che Vasari abbia distrutto un capolavoro di Leonardo. È assai più probabile che lo abbia coperto con gli affreschi da lui ideati. Le indagini scientifiche e le ricerche in loco non hanno dato finora i risultati attesi, ma non sono ancora concluse.
Altri dubbi riguardano la sorte del "sontuoso" cartone ricordato ancora nel XVIII secolo e l'eventuale ubicazione della tavola preparatoria che sicuramente fu dipinta (come attesta anche l’incisione di Lorenzo Zacchia del 1558).

A cura di
Alessandro Vezzosi, con la collaborazione di Agnese Sabato
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